Arte a misura d’uomo: Ambienti di Lucio Fontana @Hangar Bicocca

Tutti conoscono Lucio Fontana per i “tagli”, pochi conoscono la sua straordinaria opera di scultore e ceramista. Alzi la mano chi conosce gli “ambienti spaziali”.

Il motivo per cui questo filone di attività dell’artista italo-argentino è quasi sconosciuta è che (con rare eccezioni tra cui il soffitto realizzato per l’Hotel del Golfo ed ora esposto al Museo del Novecento), nulla si è conservato degli apparati ambientali realizzati a partire dagli anni ‘40. Opere create per essere esposte all’interno di mostre e rassegne, e quasi sempre distrutte al loro termine; in cui però si condensa con chiarezza straordinaria tutta la riflessione di Fontana sullo spazio.

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Non si potrebbe immaginare spazio migliore delle imponenti navate dell’Hangar Bicocca per ricollocare finalmente una serie di 11 creazioni ambientali dell’artista, riprodotte fedelmente a partire dalla documentazione fotografica e dai progetti originari custoditi presso la Fondazione Lucio Fontana.

Stanze, corridoi e labirinti che fondono pittura, scultura e architettura completando il tentativo di Fontana di “sfondare” la tela per attingere la profondità; dove le percezioni sensoriali sono infallibilmente spiazzate, la bidimensionalità diventa tridimensionale e viceversa e lo stesso terreno può ingannare il passo.

Con gli ambienti spaziali, Fontana anticipa di vent’anni il movimento Light and Space, apparso negli States a fine anni ’60, e per certi aspetti la corrente dell’arte cinetica (per farsene un’idea conviene tornare al Museo del Novecento e visitare l’ultima sezione, con l’ingresso delle sale marcato da avvisi ansiogeni tipo “vietato a donne gravide ai deboli di cuore”), ma si mantiene lontano dall’approccio da laboratorio che prenderà piede in seguito riducendo il visitatore ad inconsapevole cavia nelle mani dell’artista-ricercatore. Azzardando un po’ si potrebbe dire che Fontana arrivi ad intuire l’avvento degli ambienti immersivi della realtà virtuale, e forse non è un caso che un progetto pionieristico come Studio Azzurro nasca a Milano e non altrove.

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Entrare nelle costruzioni di Fontana è un po’ come addentrarsi in uno scrigno misterioso o in un sancta sanctorum, per essere degni del quale è sempre necessario un gesto che implica sforzo o adattamento (come calzare i soprascarpe, abbassarsi per passare nel corridoio formato sette nani, abituarsi al buio o scalare una gobba ricoperta di moquette fastidiosamente scivolosa). All’interno del “forziere” si può celare, a seconda dei casi, una struttura al neon, un uccello di cartapesta dai colori fluorescenti, un’affascinante teoria di fori luminosi che sembrano dipinti, un “taglio” operato nella parete bianca o un morbido pavimento di gomma in cui affondare.

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Nessun oggetto o significato da afferrare o comprendere, solo uno spazio da cui lasciarsi abbracciare e da abitare, almeno per pochi minuti.

Dopo molte scatole chiuse e vagamente claustrofobiche, il gran finale avviene con un’installazione “aperta” di formato monumentale: Fonti di energia, soffitto per “Italia 61”, che fa capire come un elemento apparentemente neutro e freddo come il neon possa dar forma, nelle mani di un grande artista, ad un intero mondo.

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INFO:

Orari

da lunedì a mercoledì: chiuso
da giovedi a domenica: 10-22.

Ingresso gratuito.

 

 

 

 

Nuovomondo: New York New York @ Museo del Novecento e Gallerie d’Italia

Ultimamente, la Magnani Rocca e il Museo del Novecento di Milano sembrano sincronizzati, e c’é da chiedersi se sia solo un caso. Come era già successo con ItaliaPop! e Boom60!, New York, New York. Arte italiana: la riscoperta dell’America si incrocia a Depero. Il Mago, partendo proprio dal momento in cui l’artista roveretano sbarca nella Grande Mela, soccombendo al fascino dinamico, meccanico e modernissimo della città.

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É proprio il fascino che New York esercita su tre generazioni di artisti a rappresentare il centro della mostra. Anche un artista agli antipodi di Depero per poetica e stile come De Chirico, arrivato nel 1936 per esporre la sua produzione più recente, rimane folgorato da una città “eternamente nuova”, così radicalmente opposta all’antico che invade le sue opere del periodo. Dall’incontro nasceranno alcune opere percorse da anacronismi stridenti e, soprattutto, il successo internazionale della Metafisica, accolta come la “zia” del Surrealismo nella mostra al MoMA dello stesso anno.

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Negli anni ’50, la stagione del Ritorno all’Ordine é ormai archiviata, e gli artisti di casa nostra tornano a rivolgersi a New York, alla ricerca della possibilità di una decisa rottura con il passato e con la figurazione. Nella metropoli americana ritroveranno non solo le innovazioni artistiche diffuse dalle avanguardie autoctone come l’Espressionismo Astratto (con cui Toti Scialoja cade subito in luna di miele), ma anche uno specchio per i propri desideri di democrazia e uguaglianza, immortalati su tela nelle Aspirazioni di Tancredi.

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Il “sogno americano” sarà però bruscamente interrotto dall’assassinio del simbolo di un’intera generazione, John Fitzgerald Kennedy, immortalato da Mimmo Rotella e – sostituendo, da par suo, la celebre immagine dell’attentato con la sua descrizione – da Emilio Isgrò.

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La sezione della mostra alle Gallerie d’Italia esplora l’altro lato dell’attrazione esercitata dalla Grande Mela sugli italiani: non solo quella di una fonte inesauribile di stimoli e fermenti, ma quella del più grande mercato artistico mondiale. Nel 1949, il MoMa dedica una grande mostra all’arte italiana del Novecento dove, accanto ai grandi delle generazione precedenti come Morandi, Marino Marini, Giacomo Manzù e lo stesso De Chirico, colgono l’attenzione gli emergenti come Renato Guttuso e Alfredo Pizzinato.

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Inizia da qui un susseguirsi di esposizioni in musei e gallerie e di pubblicazioni su riviste e giornali, e l’infittirsi dei rapporti con critici e collezionisti: tra i tanti, un esempio commovente é quello tra Alberto Burri e il critico James Johnson Sweeney, a cui l’artista umbro manda in regalo, ogni Natale, un saggio in miniatura della propria ultima produzione (averne anche solo uno farebbe felice qualsiasi collezionista).

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A riscuotere il maggiore successo sono gli informali e spazialisti come Afro (che purtroppo resterà più noto al di là che al di qua dell’Atlantico), Capogrossi, Scialoja, Tancredi e Vedova (vincitore nel ’56 del prestigioso Premio  Guggenheim), in perfetta sintonia con gli sviluppi dell’espressionismo astratto della scuola di New York dei vari Gorky, Pollock, Motherwell & co. Anzi, quello che documenta la mostra é un gioco continuo di scambi e rimandi reciproci, non a direzione unica: mentre Piero Consagra, Piero Dorazio e Costantino Nivola insegnano in prestigiose università statunitensi, nel ’60 Willem De Kooning raggiunge gli amici Afro e Scialoja a Roma, dove tre anni prima Cy Twombly aveva addirittura preso casa (e studio). A dire il vero, il curatore Francesco Tedeschi é sempre molto discreto quando si tratta di proporre influenze e anticipazioni da parte degli Italians sugli americani, ma alcuni esempi – come l’importanza dei grandi ferri di Burri degli anni ’50 e delle superfici estroflesse di Enrico Castellani sulla Minimal Art – sono eloquenti ed ormai acquisiti dalla critica.

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Lucio Fontana approda a New York solo nel ’61, per inaugurare alla galleria di Martha Jackson la serie di dipinti dedicati a Venezia, splendidamente rappresentata dal Concetto spaziale – luna a Venezia dove il riflesso della luce sui palazzi e sui canali é raffigurato dai vetri policromi incastonati nella tela nera. Un idillio che lascia spazio, sotto la l’impressione “terribile” dell’incontro con New York, a lamiere verticali di metallo specchiato e squarciato da tagli e buchi: una tecnica minimale ma capace di condensare tutta la varietà di sensazioni e di riflessi suscitata dalla grande città, quasi generando un nuovo tipo di icona.

 

Negli anni Sessanta, in ogni caso, il confronto con gli States é diventato ormai inevitabile, come dimostra la presenza di Enrico Baj, Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano, alla mostra The New Realists del ’62 alla Sidney Janis Gallery, in compagnia degli esponenti del New Dada e della nascente Pop Art. E qui ci troviamo riportati al centro di Italia Pop e alla sua sottolineatura dell’originalità della “via italiana” al Pop.

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Se alla fine di una tanto ricca e impeccabile rassegna (in tipico stile Gallerie d’Italia) volessimo trarre una conclusione, sarebbe forse di quelle dal retrogusto un po’ amaro. Dopo un momento di confronto quasi alla pari, gli States si sono presi la parte del leone nella storia dell’arte contemporanea, mentre il Bel Paese, dopo le stagioni trionfali ma isolate dell’Arte Povera e della Transavanguardia, si ritrova ormai relegato al ruolo di provincia estrema dell’Impero. Sarà, forse, anche perché nel frattempo la forza uniformante della cultura made in USA ha preso il sopravvento sulla creatività nostrana?